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Morto Pierre Hadot
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    Morto Pierre Hadot

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    Messaggio Da Lo Zio Gio Apr 29 2010, 21:32

    di Stefano Catucci

    ASPIRAZIONI UNIVERSALI COME ANTIDOTO AL RELATIVISMO MORALE
    Hadot ESERCIZI DI VITA

    Riemerge con il pensiero di Hadot il sogno romantico di una filosofia per l'uomo «intero». La sua morte porta a meditare sulla ricostruzione che egli attuò, attraverso il pensiero degli antichi, di una genealogia del moderno alternativa a quella dominante in Occidente dalla fine del medioevo. Fu la lettura di Wittgenstein a farlo penetrare nel mondo classico, ma prima ancora imparò da Bergson che «filosofia non è la costruzione di un sistema, ma la decisione di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé»


    Al n. 44 di rue de Rennes, a Parigi, nella sala dove tre volte alla settimana si riuniva il Collège Philosophique fondato da Jean Wahl, poco prima dei suoi quarant'anni Pierre Hadot pronunciò una conferenza su Wittgenstein, sul modo in cui dal Tractatus logico-philosophicus emergeva, inattesa, un'interrogazione sul misticismo.
    Hadot decise di commentare alcune proposizioni del Tractatus che gli apparivano animate «da una sorta di fremito impercettibile», collocate alla fine del libro come se Wittgenstein, giunto alla conclusione, avesse percepito non più l'immagine astratta del linguaggio, la sua logica, ma il sentimento quasi fisico dei «limiti del linguaggio». Proposizioni, aggiungeva Hadot, che formalmente il Tractatus avrebbe dovuto liquidare come non-sensi, ma che in realtà si imponevano per un nucleo di verità che resisteva: «Come pure alla morte il mondo non si àltera, ma termina» - «La morte non è evento della vita, la morte non si vive» - «Se per eternità non si intende infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente» - «La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti».

    Meditazioni sulla morte
    Difficile non pensare ora, nel momento della scomparsa di Hadot, alla costanza con cui il tema della morte si è affacciato nei suoi scritti. Imparare a vivere - sostiene nel suo libro più noto, Esercizi spirituali e filosofia antica - era lo scopo a cui tendevano tutte le scuole filosofiche del mondo antico, ciascuna secondo il proprio stile. Ma per imparare a vivere tutte le diverse scuole consideravano necessario meditare sulla morte e confrontarsi con essa ogni giorno. Dalla presenza serena della morte derivavano la consapevolezza della libertà, la tranquillità dell'animo, la gratitudine per ogni giorno e ogni ora ricevuta in più, il consolidamento del proprio essere di fronte all'imprevidibilità del caso e all'eccesso di dipendenza da preoccupazioni esterne.
    La morte era il primo topos, il primo luogo comune su cui si edificavano quegli «esercizi spirituali» che Hadot ha svelato essere il nucleo profondo di tutta la filosofia antica. Riattivare quegli esercizi, renderli praticabili nell'attualità, sollecitare anche nel presente il rapporto tra la pratica della filosofia e la produzione di una forma di vita è stata la sfida che Hadot ha portato avanti facendo leva sulla ricerca storiografica e la filologia. Queste erano però per lui un mezzo, non un fine. Che sia stata la lettura di Wittgenstein a fornirgli strumenti tali da aprire la comprensione del mondo antico non è dunque un paradosso, ma la tappa di un cammino speculativo. Prima di Wittgenstein, raccontava Hadot, era stata una frase di Bergson a mostrargli la via: «filosofia non è la costruzione di un sistema, ma la ferma decisione di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé».
    Gli studi di Hadot sulla filosofia antica ricostruiscono una genealogia del moderno alternativa a quella che ha dominato, in Occidente, a partire dalla fine del Medioevo. Il suo interesse non è attirato dai sistemi, dai filosofemi, dalle dottrine, bensì dalle «topiche», ovvero dai temi ricorrenti sui quali il pensiero si è storicamente esercitato e dalla natura stessa degli esercizi con i quali la filosofia ha cercato di influire sulla vita quotidiana degli uomini per darle forma, verità e sostanza. Hadot avrebbe scelto un aggettivo ambivalente per qualificare quegli esercizi: «spirituali». Argomentando tale scelta sapeva bene di avere evocato un modello formalizzato dalla tradizione cristiana, da Ignazio di Loyola, ma al tempo stesso voleva mostrare come alle spalle del cristianesimo agisse un'altra tradizione, misconosciuta eppure radicatissima: quella che risaliva allo stoicismo, al neoplatonismo e in generale all'intero contesto della filosofia del mondo tardo antico. Definire «spirituali» quegli esercizi filosofici significava, secondo Hadot, far capire come in essi fosse coinvolto non solo un lato intellettuale, non solo il pensiero, ma l'intero ambito della vita psichica: emozioni, passioni, sentimenti, immaginazione, sensibilità. Il sogno romantico di una filosofia per l'uomo «intero» da contrapporre all'uomo in frammenti, parziale, costruito artificiosamente dal sapere scientifico, riemerge così nel pensiero di Hadot e prende l'aspetto di un fiume carsico che unisce Goethe e Spinoza alle preoccupazioni antiche per la filosofia come maniera di vivere, Descartes e le sue Meditazioni all'esempio di Agostino e di Husserl da un capo all'altro del filo della storia, un sociologo umanista e marxista come Georges Friedmann ai pensieri dell'imperatore Marco Aurelio. Né i saggi riuniti a più riprese in quella sorta di work in progress che è stato, per Hadot, il libro Esercizi spirituali e filosofia antica, né gli studi apparentemente più settoriali come la monografia Plotino o la semplicità dello sguardo, il commento a Marco Aurelio La cittadella interiore o la panoramica su Che cos'è la filosofia antica rinunciano al cortocircuito con il presente, a riconoscere nell'antico un modello per la filosofia di oggi. L'aspirazione all'universalità che era stata tipica delle scuole antiche, per le quali il punto di vista personale doveva elevarsi fino a quello cosmico, si presentava agli occhi di Hadot come un esempio della possibilità di superare l'individualismo moderno in una lotta a suo modo profetico contro il relativismo etico. Gli antichi, scriveva Hadot, erano meno interessati a formulare teorie sulla fisica, la logica e la morale che non a vivere secondo le leggi della fisica, della logica e della morale. Questo però significava per loro che una visione del tutto doveva pur sempre governare la formazione del proprio sé, nel quale ben poco doveva rimanere di individuale e molto, invece, doveva risalire a principi generali: «Seneca trova la propria gioia non già in Seneca, ma andando oltre Seneca, scoprendo cioè di avere in se stesso una ragione che è parte della Ragione universale ed è posta all'interno di tutti gli uomini, come pure del cosmo».

    La distanza da Foucault
    Si può dedurre da quest'ultima frase tutta la distanza che separava Hadot da Michel Foucault, filosofo che pure si era entusiasmato per la scoperta di quel rapporto essenziale tra filosofia e forma di vita e che riconobbe più volte il suo debito nei confronti dello studioso del mondo antico. Foucault avrebbe dedicato troppa attenzione alla «cura di sé» e poca al «superamento di sé» verso l'universale, troppa all'idea di una «estetica del sé» e poca alla «prospettiva cosmica» dell'etica antica. Dopo la morte di Foucault scrisse che il rischio gli pareva quello di produrre «una nuova forma di dandismo versione fine Novecento», forse sapendo o forse no che Foucault aveva evocato quell'espressione, «dandismo», come etichetta di una critica al sentimento moderno dietro la quale si delineava il profilo del rigorismo morale cristiano. Era questa la differente «opzione filosofica» nominata da Hadot e questa, in fondo, la ragione di un interesse per l'antico che egli sapeva essere stata motivata da una «devota gioventù» e fortificata da una maturità nutrita dalla fiducia nella possibilità di praticare un sia pur «fragile» esercizio di saggezza nella forma indicata da Marco Aurelio: «sforzo di praticare l'oggettività del giudizio, sforzo di vivere secondo la giustizia e al servizio della comunità umana, sforzo di prendere coscienza della nostra condizione di parti dell'universo».
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    Messaggio Da fabiovob Gio Apr 29 2010, 22:14

    Manifesto del 28 aprile 2010, sezione cultura
    Manifesto

    CULTURA & VISIONI28.04.2010
    APERTURA | di Stefano Catucci
    ASPIRAZIONI UNIVERSALI COME ANTIDOTO AL RELATIVISMO MORALE
    Hadot ESERCIZI DI VITA
    Riemerge con il pensiero di Hadot il sogno romantico di una filosofia per l'uomo «intero». La sua morte porta a meditare sulla ricostruzione che egli attuò, attraverso il pensiero degli antichi, di una genealogia del moderno alternativa a quella dominante in Occidente dalla fine del medioevo. Fu la lettura di Wittgenstein a farlo penetrare nel mondo classico, ma prima ancora imparò da Bergson che «filosofia non è la costruzione di un sistema, ma la decisione di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé»
    Al n. 44 di rue de Rennes, a Parigi, nella sala dove tre volte alla settimana si riuniva il Collège Philosophique fondato da Jean Wahl, poco prima dei suoi quarant'anni Pierre Hadot pronunciò una conferenza su Wittgenstein, sul modo in cui dal Tractatus logico-philosophicus emergeva, inattesa, un'interrogazione sul misticismo.
    Hadot decise di commentare alcune proposizioni del Tractatus che gli apparivano animate «da una sorta di fremito impercettibile», collocate alla fine del libro come se Wittgenstein, giunto alla conclusione, avesse percepito non più l'immagine astratta del linguaggio, la sua logica, ma il sentimento quasi fisico dei «limiti del linguaggio». Proposizioni, aggiungeva Hadot, che formalmente il Tractatus avrebbe dovuto liquidare come non-sensi, ma che in realtà si imponevano per un nucleo di verità che resisteva: «Come pure alla morte il mondo non si àltera, ma termina» - «La morte non è evento della vita, la morte non si vive» - «Se per eternità non si intende infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente» - «La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti».

    Meditazioni sulla morte
    Difficile non pensare ora, nel momento della scomparsa di Hadot, alla costanza con cui il tema della morte si è affacciato nei suoi scritti. Imparare a vivere - sostiene nel suo libro più noto, Esercizi spirituali e filosofia antica - era lo scopo a cui tendevano tutte le scuole filosofiche del mondo antico, ciascuna secondo il proprio stile. Ma per imparare a vivere tutte le diverse scuole consideravano necessario meditare sulla morte e confrontarsi con essa ogni giorno. Dalla presenza serena della morte derivavano la consapevolezza della libertà, la tranquillità dell'animo, la gratitudine per ogni giorno e ogni ora ricevuta in più, il consolidamento del proprio essere di fronte all'imprevidibilità del caso e all'eccesso di dipendenza da preoccupazioni esterne.
    La morte era il primo topos, il primo luogo comune su cui si edificavano quegli «esercizi spirituali» che Hadot ha svelato essere il nucleo profondo di tutta la filosofia antica. Riattivare quegli esercizi, renderli praticabili nell'attualità, sollecitare anche nel presente il rapporto tra la pratica della filosofia e la produzione di una forma di vita è stata la sfida che Hadot ha portato avanti facendo leva sulla ricerca storiografica e la filologia. Queste erano però per lui un mezzo, non un fine. Che sia stata la lettura di Wittgenstein a fornirgli strumenti tali da aprire la comprensione del mondo antico non è dunque un paradosso, ma la tappa di un cammino speculativo. Prima di Wittgenstein, raccontava Hadot, era stata una frase di Bergson a mostrargli la via: «filosofia non è la costruzione di un sistema, ma la ferma decisione di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé».
    Gli studi di Hadot sulla filosofia antica ricostruiscono una genealogia del moderno alternativa a quella che ha dominato, in Occidente, a partire dalla fine del Medioevo. Il suo interesse non è attirato dai sistemi, dai filosofemi, dalle dottrine, bensì dalle «topiche», ovvero dai temi ricorrenti sui quali il pensiero si è storicamente esercitato e dalla natura stessa degli esercizi con i quali la filosofia ha cercato di influire sulla vita quotidiana degli uomini per darle forma, verità e sostanza. Hadot avrebbe scelto un aggettivo ambivalente per qualificare quegli esercizi: «spirituali». Argomentando tale scelta sapeva bene di avere evocato un modello formalizzato dalla tradizione cristiana, da Ignazio di Loyola, ma al tempo stesso voleva mostrare come alle spalle del cristianesimo agisse un'altra tradizione, misconosciuta eppure radicatissima: quella che risaliva allo stoicismo, al neoplatonismo e in generale all'intero contesto della filosofia del mondo tardo antico. Definire «spirituali» quegli esercizi filosofici significava, secondo Hadot, far capire come in essi fosse coinvolto non solo un lato intellettuale, non solo il pensiero, ma l'intero ambito della vita psichica: emozioni, passioni, sentimenti, immaginazione, sensibilità. Il sogno romantico di una filosofia per l'uomo «intero» da contrapporre all'uomo in frammenti, parziale, costruito artificiosamente dal sapere scientifico, riemerge così nel pensiero di Hadot e prende l'aspetto di un fiume carsico che unisce Goethe e Spinoza alle preoccupazioni antiche per la filosofia come maniera di vivere, Descartes e le sue Meditazioni all'esempio di Agostino e di Husserl da un capo all'altro del filo della storia, un sociologo umanista e marxista come Georges Friedmann ai pensieri dell'imperatore Marco Aurelio. Né i saggi riuniti a più riprese in quella sorta di work in progress che è stato, per Hadot, il libro Esercizi spirituali e filosofia antica, né gli studi apparentemente più settoriali come la monografia Plotino o la semplicità dello sguardo, il commento a Marco Aurelio La cittadella interiore o la panoramica su Che cos'è la filosofia antica rinunciano al cortocircuito con il presente, a riconoscere nell'antico un modello per la filosofia di oggi. L'aspirazione all'universalità che era stata tipica delle scuole antiche, per le quali il punto di vista personale doveva elevarsi fino a quello cosmico, si presentava agli occhi di Hadot come un esempio della possibilità di superare l'individualismo moderno in una lotta a suo modo profetico contro il relativismo etico. Gli antichi, scriveva Hadot, erano meno interessati a formulare teorie sulla fisica, la logica e la morale che non a vivere secondo le leggi della fisica, della logica e della morale. Questo però significava per loro che una visione del tutto doveva pur sempre governare la formazione del proprio sé, nel quale ben poco doveva rimanere di individuale e molto, invece, doveva risalire a principi generali: «Seneca trova la propria gioia non già in Seneca, ma andando oltre Seneca, scoprendo cioè di avere in se stesso una ragione che è parte della Ragione universale ed è posta all'interno di tutti gli uomini, come pure del cosmo».

    La distanza da Foucault
    Si può dedurre da quest'ultima frase tutta la distanza che separava Hadot da Michel Foucault, filosofo che pure si era entusiasmato per la scoperta di quel rapporto essenziale tra filosofia e forma di vita e che riconobbe più volte il suo debito nei confronti dello studioso del mondo antico. Foucault avrebbe dedicato troppa attenzione alla «cura di sé» e poca al «superamento di sé» verso l'universale, troppa all'idea di una «estetica del sé» e poca alla «prospettiva cosmica» dell'etica antica. Dopo la morte di Foucault scrisse che il rischio gli pareva quello di produrre «una nuova forma di dandismo versione fine Novecento», forse sapendo o forse no che Foucault aveva evocato quell'espressione, «dandismo», come etichetta di una critica al sentimento moderno dietro la quale si delineava il profilo del rigorismo morale cristiano. Era questa la differente «opzione filosofica» nominata da Hadot e questa, in fondo, la ragione di un interesse per l'antico che egli sapeva essere stata motivata da una «devota gioventù» e fortificata da una maturità nutrita dalla fiducia nella possibilità di praticare un sia pur «fragile» esercizio di saggezza nella forma indicata da Marco Aurelio: «sforzo di praticare l'oggettività del giudizio, sforzo di vivere secondo la giustizia e al servizio della comunità umana, sforzo di prendere coscienza della nostra condizione di parti dell'universo».

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